08 julio 2022

Ciò che veramente accadde

Daniela Amadori



La donna mi guarda con i suoi occhi di un azzurro slavato. E’ curva sotto il peso degli anni.

Sono sempre stata bionda” mi dice: “Snella. All’epoca non ero male per i miei 17 anni, ma non me ne accorgevo”.

Non faccio fatica a crederle: di fotografie ne ho viste tante. “Signora, perché dopo tutti questi anni di silenzio, ha scelto proprio questo momento per accordare a me un’intervista?”

Sebbene ciò che è accaduto abbia segnato per sempre la mia vita, solo ora che l’età tarda me lo consente, ne parlo per fissare ogni cosa al suo posto, senza particolari emozioni, senza rabbia, perché ho smesso di portare rancore e perché voglio che si sappia la mia verità. E poi lei è troppo giovane per ricordare… non ha pregiudizi.”

Le sorrido: forse ero giovane per ricordare ciò che accadde, ma ho letto e studiato molto e mi sono preparata bene a questa intervista. “Allora iniziamo. Mi dica le cose dal suo punto di vista!” Inizia a raccontare in modo introspettivo e decido di interromperla il meno possibile.

Studiavo al liceo, ma amavo il violino. Mancava poco per diplomarmi in questo prestigioso strumento. Sognavo concerti in giro per il mondo, partecipazioni in orchestre internazionali: diventare primo violino al Concerto di Capodanno a Vienna… Ai miei genitori i mezzi e le conoscenze per “aprirmi la strada alla celebrità” non mancavano.

Anche il mio fratellino più piccolo, avrei scoperto più tardi, aveva una vena artistica: scriveva storie intriganti, accompagnate da fotografie originali e coinvolgenti, ma a quell’epoca aveva solo 15 anni.

Chi era veramente al centro di tutta l’attenzione e l’ammirazione della famiglia, però, era il fratello maggiore.”

Intende Vittorio?”

Sì! Vittorio: alto, occhi dallo sguardo profondo e accattivante, capelli neri, con i riccioli sempre fuori posto. Tanto che le ragazze che lo incontravano penso avessero l’innato desiderio di affondarci le mani per risistemarglieli come si fa con un barboncino, sperando di riceverne coccole e fedeltà..

-Come sei fortunata! - Dicevano le mie amiche quando veniva a prendermi a scuola in moto. - Avere in casa un così bel ragazzo e non dover aspettare che si innamori perché si prenda cura di te! - Questo mi faceva ridere, ma anche mi riempiva di orgoglio.

Anche i miei genitori lo adoravano: era il primo figlio, quello più bello, quello veramente intelligente: - Prendete esempio da Vittorio! - Dicevano al mio fratellino e a me. - Vittorio sì che non ha grilli per la testa, lui studia seriamente per diventare ingegnere. Lui è l’unico con la testa sul collo, è lui che ci darà le vere soddisfazioni.- Questo mi rendeva un po’ gelosa, ma solo un po’.”

E Vittorio come rispondeva? Non si sentiva a disagio davanti a tutti questi elogi?”

Vittorio non rispondeva: era riservato, prudente, schivo. Almeno così pensavo io.

Aveva pochi amici, selezionati. Venivano spesso a casa nostra nel pomeriggio e si chiudevano in camera sua. Diceva che studiavano per gli esami. Nessuno sapeva realmente cosa e come facessero, ma gli esami li dava, eccome se li dava! E prendeva quasi sempre il massimo dei voti. Era bravo soprattutto in fisica e in chimica. Cosa si poteva chiedere di più?”

A lei piacevano i suoi amici? Erano gentili?”

A me ne piaceva soprattutto uno. Si chiamava Luigi: era allampanato, con una zazzera di capelli rossi ed uno sguardo simpatico.

A volte sognavo ad occhi aperti che si accorgesse di me, che mi prendesse in disparte, senza che mio fratello se ne accorgesse, e mi chiedesse di uscire…

Quale fu la mia sorpresa il giorno in cui davvero, uscendo dalla camera di Vittorio, mi prese in disparte. Avevo il fiato sospeso e immaginavo…

- Sofia - mi disse: - Ho bisogno di un piacere e penso che tu sia la persona ideale per farmelo.-

Non era proprio ciò che mi aspettassi… ma risposi prontamente che ero a sua disposizione.

- Vedi -, continuò: - mia sorella ha avuto una bambina, Matilde, e ha bisogno di tornare a lavorare il prima possibile. Vorrebbe che le tenessi io la piccola, ma, almeno il pomeriggio, io ho bisogno di studiare. Se io la portassi qui, potresti occupartene tu?

Questa richiesta mi intenerì, il mio immaginario si scatenò e, nonostante non avessi più l’età per giocare, mi vidi già nelle vesti di “mamma” con una nuova bambola. Accettai.

La bimba era bellissima, paffuta e sorridente. La più parte del tempo dormiva nella sua carrozzina o mi ascoltava mentre mi esercitavo al violino: pareva le piacesse. A metà pomeriggio Luigi la portava in camera di Vittorio, la voleva cambiare lui, e poi me la riportava perché le dessi il biberon. Verso le 18,30 lo zio riportava la bimba alla mamma che, nel frattempo, tornava dal lavoro. Era una routine deliziosa.

Durò a lungo questa routine?”

Circa tre mesi. La primavera era ormai inoltrata, il tepore si faceva sentire e gli alberi erano in fiore. Luigi mi disse che la sorella avrebbe terminato prima il lavoro, quel pomeriggio: -Potresti, dopo la pappa, uscire con Matilde e, magari passando per il giardino così prende un po’ di aria buona, portarla a qui? E’ dove abita - Presi il foglietto che mi stava porgendo. C’era un indirizzo scritto sopra. Aveva uno strano odore quel biglietto… lo stesso profumo che sentivo sempre addosso a Luigi quando prendeva Matilde e se ne andava.

Mi sentii così fiera che mi avesse chiesto di fare una cosa di tale responsabilità! Alle 16,30 come sempre, Luigi cambiò la piccola in camera di mio fratello, io le diedi la pappa e poi uscii.

- Vieni piccolina! Andiamo al parco! - Matilde seguiva la mia voce e mi rispondeva con tanti deliziosi versetti. Quando giunsi all’indirizzo scritto nel biglietto, vidi un palazzo dall’aria decadente. Suonai e mi aprì la portinaia - Lei è Sofia? La ragazza di Luigi? - Arrossii. Non me l’aspettavo. Balbettai: - Nnnno no, sono solo un’amica! –

- Va bene non sono affari miei! Comunque, signorina, la mamma di Matilde non è ancora rientrata. –

- Allora la riporto da Luigi - dissi. - No, mi ha telefonato dicendo che può lasciare a me la bambina - La guardai perplessa. Potevo veramente fidarmi? Come se mi avesse letto nel pensiero aggiunse: - Se non si fida può chiamare a casa sua e chiedere di Luigi. Lo conosco da quando era piccolo.-“

E lei cosa fece?”

Non mi fidai e telefonai. Mi disse di lasciare la bimba a quella donna. Così feci”.

Ricorda ancora che giorno era?”

Sì! Ricordo ancora la data, perché il giorno dopo scoppiò una bomba in uno dei punti strategici della città. Fece decine di morti. Per me era un fatto di cronaca come tanti altri.

Papà invece non si dava pace: - Questi maledetti terroristi - diceva, - nessuna idea politica può giustificare l’omicidio. In fondo sono dei codardi, che si uniscono per ammazzare perché non sanno parlare. Sono privi di intelligenza, di cultura e hanno avuto genitori che non hanno saputo educarli - In casa nessuno replicava…”

Cosa accadde in seguito?

Sembrava che nulla potesse portare ai colpevoli di quella tragedia, ma poi fu ritrovato un pezzo di stoffa in fibra di cotone e gli esperti dissero che poteva avvolgere la bomba o farne da appoggio. Avrebbe potuto essere il lenzuolino di una carrozzina. Il lenzuolino di una carrozzina…

Dopo qualche giorno, alle 5 del mattino, la polizia ci svegliò con i mitra spianati. Mio fratello fu arrestato e non tornò più a casa per molti, molti anni. Fu dimostrato che la bomba era stata fabbricata in casa nostra.”

Tace come assorta in un pensiero tutto suo, in un dolore che ancora la lacera ed io non riesco ad intervenire. Poi si riprende e continua.

I miei genitori spesero tutti i nostri averi per aiutare quel figlio. La carriera mia e del fratello più piccolo fu rovinata per sempre: nessuno voleva qualcuno con il nostro cognome. Alla fine ho fatto un lavoro modesto e sono riuscita a sposarmi perché mio marito si era innamorato di me aldilà della mia famiglia”.

Ha mai rivisto la piccola Matilde?” Chiedo a mezza voce, con delicatezza, perché so che è un argomento difficile, per lei, da affrontare

No! Fortunatamente nessun cadavere di bimbo fu mai trovato fra i rottami dell’esplosione, ma io non rividi più Matilde, nemmeno durante i processi. Insieme avevamo trasportato l’esplosivo da chi l’aveva prodotto a chi l’aveva posizionato. Insieme, senza saperlo, avevamo rischiato la vita.

Per molti anni ho odiato mio fratello per quello che aveva fatto, per quello che ci aveva fatto, per quello che, senza alcun scrupolo, aveva fatto a me! Ora non più. Ma non posso, non voglio dimenticare e una domanda mi perseguita: la mia piccola Matilde dove sarà? E poi… chissà…si sarà chiamata davvero Matilde?”

Mi guarda con un guizzo di curiosità che supera la tristezza che c’era nei suoi occhi fino a un attimo prima: “A proposito signorina Blanco… quando mi ha telefonato per chiedermi di fare quest’intervista, ho afferrato solo il suo cognome.. Qual è il suo nome cara?”

Matilde signora! Mi chiamo Matilde!”

02 julio 2022

Requiem por la sanidad madrileña

Carmen García Delgado

 


En una entrevista que le hicieron para Diario Médico, publicación gratuita que se ofrecía a los profesionales sanitarios, mi difunto hermano Emilio contaba que en Cantabria existía la costumbre de apartar una vaca para sufragar posibles gastos sanitarios. También, con su ironía habitual, contestó que en sanidad había malos, como en Harry Potter. Ambas afirmaciones son grandes verdades que reflejan la situación que vive la sanidad pública y lo que nos puede llegar a ocurrir.

Hay malos como en Harry Potter que esquilman, degradan y hunden la sanidad pública en pro de intereses espurios, muy alejados del bien común, de la equidad que promueven las políticas del estado de bienestar.

El canto de sirenas neoliberal ha hechizado a muchos de nuestros dirigentes que, además, han visto en la sanidad un negocio muy lucrativo y perdurable. Bien se lo advirtió hace unos años un consejero de Sanidad a los asistentes a un desayuno en el Ritz. La convocatoria del acto rezaba: “Aproveche las oportunidades de negocio para su empresa”

La situación de la sanidad pública madrileña es precaria y caótica, sometida a constantes embestidas privatizadoras y recortes para facilitar su colapso. Veamos algunos ejemplos.

En marzo de 2020, cuando estalló la pandemia, la Consejería de Sanidad cerró treinta y siete Servicios de Urgencias de Atención Primaria, SUAP. Eran servicios próximos al domicilio de los ciudadanos, que prestaban atención urgente cuando el centro de salud estaba cerrado. Los fines de semana, además, ponían tratamientos o realizaban curas prescritas por profesionales de otros niveles asistenciales, garantizando la continuidad asistencial. Sus profesionales fueron trasladados al hospital que se montó en los pabellones de IFEMA (la feria de muestras de Madrid) iniciando así un peregrinaje que perdura a día de hoy.

Tras muchas excusas de mal pagador, como reza el dicho, al fin salen a la luz las aviesas intenciones del gobierno de la Comunidad de Madrid. De de los 37 SUAP que había en marzo de 2020, 20 no volverán a abrir sus puertas y, de los 17 restantes, 7 no tendrán médico, lo que imposibilita que atiendan urgencias extrahospitalarias. Además, se les cambia el nombre y pasan a denominarse Puntos de Atención Continuada, PAC. De un plumazo han eliminado una estructura que, en el año 2019, último del que conocemos datos, atendió a 753.678 pacientes. La falta de un recurso de atención urgente cercana al domicilio implica que la ciudadanía deberá acudir a las urgencias de los hospitales, ya saturadas y próximas al colapso.

Hace unas horas, desdiciendo a su Consejero de Sanidad, la Presidenta de la Comunidad de Madrid ha anunciado que se abrirán paulatinamente todos los SUAP, sin precisar fecha prevista. Sólo ha adelantado que lo harán primero aquellos que estén a mayor distancia de un hospital, lo que supone seguir centrando la asistencia urgente en los recursos hospitalarios con todos los problemas de saturación y colapso que conlleva. ¿Será real algún día la apertura de los SUAP o estamos ante una maniobra de distracción? El tiempo lo dirá.

Entre tanto, el día 23 de junio pasado, el diario El País publicaba un artículo en el que se analizaba la situación de los servicios de urgencias de algunos hospitales de Madrid. Bajo el acertado título de Llega la tormenta perfecta a las urgencias hospitalarias de Madrid: hasta un 50% más de pacientes, menos camas y menos sanitarios, relataba la experiencia de pacientes y profesionales: esperas interminables para ser atendidos, pasillos llenos, profesionales estresados y al límite de sus fuerzas. En el Hospital 12 de Octubre la asistencia a urgencias ha aumentado un 50%, según datos de Amyts, uno de los sindicatos más representativos del sector sanitario El departamento de prensa del centro lo rebaja: “Estamos atendiendo a 700 pacientes al día, frente a los 500 de media habitual en este período… ”. Ese mismo artículo hace referencia a una publicación en Twitter de Mats, otro sindicato del sector, que recoge la situación del servicio de urgencias del Hospital Ramón y Cajal: 71 pacientes esperando para triaje.

Médicas de otro hospital manifiestan que la espera de urgencias en su centro, tanto de día como de noche, son seis o siete horas; los mismos efectivos que había en 2008 tienen que atender un mayor número de pacientes en 2022 y como ellas mismas dicen: “Ves el Zendal cerrado, casi sin pacientes”. Pero esto es harina de otro costal.

La Consejería de Sanidad admite que se está viviendo más frecuentación en urgencias, es decir, que acuden más pacientes, y añade que la mayoría de los pacientes no requieren ingreso. En mi opinión está claro lo que ocurre: ante el cierre de los SUAP, están acudiendo a los servicios de urgencias hospitalarias pacientes que podrían haber sido tratados en menor tiempo en estos centros que se han cerrado. Las urgencias hospitalarias no estarían colapsadas, los pacientes esperarían menos y los profesionales no se verían abocados a hacer frente a una elevadísima demanda asistencial. Todos, ciudadanos y profesionales, saldríamos beneficiados.

Ante la pregunta que formulan los autores del artículo “¿Cree la Consejería de Sanidad que el hecho de tener cerrados 37 SUAP desde hace dos años provoca esta tensión en las Urgencias?”, ningún portavoz responde.

Pero no sólo se cierran los SUAP, ante la falta de médicos para cubrir todos los recursos móviles de emergencia, las conocidas como UVIs móviles, se crea otro llamado Soporte Vital Avanzado de Enfermería, SVAE, que no es más que una UVI sin médico.

Por otra parte, ya se ha anunciado que algunos centros de salud no tendrán médico, de momento en verano, ante la imposibilidad de encontrar suplentes.

Lo que no dicen es que han despedido a 6.000 sanitarios con el llamado contrato COVID, contrato de refuerzo creado para hacer frente a la pandemia.

¿Será por falta de dinero? No lo parece si tenemos en cuenta los gastos millonarios, los enormes sobrecostes que comportó la construcción de una estructura megalómana e inútil como el Hospital de Emergencias Enfermera Isabel Zendal, más conocido como el Zendal. O el escandaloso beneficio que dejan los pacientes de la sanidad pública al ir a la privada al amparo de la libre elección: 263 millones de euros para la Fundación Jiménez Díaz entre 2015 y 2021, según El País de 16 de junio de 2022.

¿Y qué repercusión tienen estas medidas? Lo hemos podido deducir de párrafos anteriores: una asistencia sanitaria de menor calidad, urgencias saturadas y colapsadas, listas de espera astronómicas… en definitiva, consecuencias directas sobre nuestra salud, en plena pandemia además.

Todo apunta a que se va perfilando un sistema en el que la calidad de la atención que recibes va en consonancia con la cantidad de dinero que puedes pagar por ella. Se potencia la sanidad privada, que no es ajena a muchos de los problemas que tiene la pública, en detrimento del sistema público de salud. Se pierde un bien social y de enorme poder redistributivo en aras de un sistema desigual.

Tal vez debamos ir pensando en guardar una vaca por si acaso, como se hacía en Cantabria.

Carmen García Delgado es médico internista.

24 junio 2022

Relato ganador del VI Premio de Escritura Breve de Diario de Madrid 2022

Los párpados de la vida, de José Luis Chaparro González, de Salvatierra de los Barros (Badajoz, España), ha resultado vencedor del VI Premio de Escritura Breve de Diario de Madrid 2022. 

Al mísmo han concurrido 173 textos que han sido enjuiciados por un jurado compuesto por 35 miembros, de México, Italia y España, a los que se agradece su labor. Sin ellos este certamen no hubiera sido posible. A todos los autores participantes, de América, Italia y España, muchas gracias por su esfuerzo y contribución y una efusiva enhorabuena al triunfador. 

El correspondiente trofeo, una obra gráfica del reconocido pintor Antonio Lago Rivera (1916-1990), le será remitido en breve al autor ganador.

Los párpados de la vida

José Luis Chaparro González

Lo de siempre, Melenas

Era nuestra rutina diaria: él se acercaba cuando yo aún no había terminado de sentarme en el taburete, le pedía, y el Melenas se largaba sin abrir la boca, para volver con el whisky y se quedaba mirándome. Era una especie de reproche. El médico me tenía prohibido el alcohol y él me lo recordaba con su mirada silenciosa. 

Lo único que el Melenas conservaba de cuando éramos jóvenes era el apodo. Tenía barriga y en lugar de aquel pelo largo de entonces, hacía ya muchos años que lucía una brillante calva. Nos hicimos mayores demasiado pronto. Yo casi llegué a dominar el bajo y él, con su guitarra eléctrica, ejecutaba con dignidad los míticos temas de Santana. 

Con nuestros instrumentos de segunda mano y con la cabeza puesta en las grandes bandas, tocábamos pasodobles en las verbenas de los pueblos de la comarca y soñábamos, primero con actuar de teloneros de Santana, para después recorrer el mundo entero llenando estadios de fútbol.

El Melenas, Chick, Charly y el Case, que era yo. Fue Charly el que me adjudicó el apodo, por mi manía de devorar a todas horas quesitos en porciones El Caserío. Charly los traía a los ensayos para que nunca me faltaran. 

Aparte de esporádicas llamadas telefónicas, el Melenas y yo, apenas coincidíamos con Chick y Charly, desde que abandonamos la idea de llegar a ser estrellas del rock. Y todo, porque un día cualquiera, la realidad nos golpeó en la nuca con nocturnidad y alevosía. Cuando despertamos ya teníamos más de treinta, y cada uno tiró por su lado como una banda de forajidos, tras cruzar la frontera, después de consumado su crimen. 

El bar del Melenas era tan grande que siempre parecía vacío. Compró a buen precio una parcela donde había un puticlub abandonado y convirtió el local en un restaurante para camioneros, que incluso disponía de una pista de baile. Él vivía en las habitaciones de arriba. Fue lo único que quiso conservar tras su divorcio, hacía más de quince años, cuando su mujer lo sorprendió liado con la camarera. Sus dos hijos también le dieron la espalda aunque, al cabo de algunos años, la relación con su ex y sus hijos se suavizó hasta quedar como si los cuatro fueran viejos amigos. Colgadas en las paredes del bar, tenía varias guitarras eléctricas de distintas marcas. 

Allí me gustaba aterrizar cada tarde, después de atender al último candidato a cliente de la maldita inmobiliaria donde debía pasar los pocos meses que me faltaban para la jubilación, obligado a oír toda clase de excusas tontas: “Nos gusta la casa pero… demasiado pequeña, demasiado grande, demasiado cara, demasiado cerca del centro, demasiado lejos… “. 

Los bares son confesionarios, pero los camareros no estamos sujetos al secreto de confesión —soltó el Melenas, casi murmurando.  

¿De qué coño estás hablando? —pregunté observando cómo a través de los cubitos de hielo sumergidos en el whisky, parecían cobrar vida los cuatro botones de la Les Paul, la guitarra favorita del Melenas.

La gente confiaba en el Melenas. Se decía que oía mucho y hablaba poco.

Ayer por la noche, pasó por aquí Chick.

Chick. Cuando consiguió hacerse con un Roland usado de casi un metro y medio, dormía abrazado a él. Tomó su apodo del nombre de su ídolo de siempre: Chick Corea. “A partir de ahora, llamadme Chick”.

Chick podía permanecer varias horas tocando sin descansar, siempre que fuera la música que a él le gustaba: música de los grandes. Era el mayor de nosotros y también el vocalista, con tal facilidad para modular su voz, que conseguía entonar cualquier tema de cualquier autor. Además, su inglés era perfecto. Cuando se quedó viudo le dio por pintar. Cogía su vieja Nikkon fotografiaba antiguas ventanas de madera para luego pintarlas al óleo. Decía que las ventanas eran como los párpados de la vida; que si pudieran contar todo lo que habían visto, se podrían escribir libros como para llenar bibliotecas enteras y que por eso, para que dejaran de fisgonear, las pintaba cerradas. Y el caso es que había gente que le compraba aquellos extraños cuadros. 

¿Y qué quería Chick? 

Me dijo que estaba en contacto con Charly y que se vieron a menudo en estos últimos meses.

Charly fue nuestro batería. Siempre presumía de tener el ritmo metido en el cuerpo, mientras hacía movimientos frenéticos con los brazos, como tocando una batería imaginaria. Poco tiempo después de la disolución del grupo, nos contó que dejaba de tocar para casarse con una hippy reformada, hija de un importante hombre de negocios de la zona. Por lo visto, el padre le prometió a su hija que si olvidaba aquellas tonterías de niña rica para casarse como Dios mandaba, el negocio sería para ella y para su marido. Y si no, que tendría que alimentarse de las margaritas que tenía tatuadas por todo el cuerpo. Ella se lo pidió, y Chick, enamorado como un adolescente, aceptó. Así, Charly pasó de promesa del rock a propietario de una fábrica de jamones, más aún tras morir su suegro, cuando su mujer le confesó que siempre quiso abandonarlo todo para volver a Ibiza con su antiguo novio hippy. Charly le concedió ese deseo: Prefiero tu felicidad a la mía. Se comprometió a hacerle llegar su parte del beneficio, además de pedirle perdón por no haber conseguido hacerla feliz a su lado. Su novio hippy, tan viejo como ellos, se la llevó en una Transporter rosa con grafitis, pero Charly nunca la olvidó.

El Melenas retiró mi vaso vacío. Cuando me puso otro whisky delante, oí que murmuraba: Que se joda el medicucho ese tuyo”.

Su cara cambió al mascullar:

Case… Charly se muere. Nuestro Charly. Le quedan unos pocos meses.

Oír aquello me hizo más daño que si un peso pesado me hubiera alcanzado con un croché en la sien. A ciertas edades, cada vez menos cosas consiguen conmover. Como si el paso del tiempo se encargase de devaluar los sentimientos. Charly: quizá la mejor persona que he conocido nunca. Antes de dejar el vaso sobre la barra, apuré el whisky de un trago. “Charly. Charly se muere. Me cago en la puta vida… “.

Si no fuera por mi esposa, enferma en silla de ruedas desde hacía años y a la que de momento cuidaba nuestra hija que vivía con nosotros desde que rompió con su último novio tras recorrer con él medio mundo en bicicleta, hubiera preferido mil veces que me dijeran que mi jubilación se retrasaba diez años o que un infarto me haría caer fulminado, solo, esperando a los posibles compradores de un triste apartamento sin amueblar en las afueras, por una comisión de mierda.

¿No dices nada?

¿Y qué coño quieres que diga?

El Melenas descolgó su Gibson y comenzó a tocar Moonflower. La parejita que ocupaba una de las mesas del fondo dejó de hablar de sus cosas para acercarse a nosotros, igual que los clientes de varias mesas, además de un tipo que esperaba en la barra, que prefirió no interrumpir.

El que se siente músico, sirva copas en un bar, pinte cuadros raros o venda jamones o apartamentos, será músico hasta el día que lo entierren”, pensé.

Cerré los ojos, que se me llenaron de lágrimas, con un gesto instintivo elevé mi mano izquierda hasta el hombro y me llevé la derecha hasta la barriga, para acompañar al Melenas simulando tocar mi Fender.

Como si las últimas notas que tocó el Melenas hubieran tenido un efecto paralizante, nadie se movió. Devolvió la guitarra a su sitio y sonrió, como si hubiera adivinado lo que pasaba por mi cabeza: Parece que toca mejor que antes… el hijoputa este”.

El Melenas me miró a los ojos y lo soltó:

¿Lo hacemos por él? —me preguntó—. Tú llamas a Chick y yo a Charly para quedar aquí, mañana a esta hora, a ver qué pasa.

Mañana nos vemos —respondí antes de salir.

Cuando llegué a casa saqué mi Fender. Lo acaricié como hacía siempre que me sentía triste y, pensando en Charly, toqué Black Magic Woman con una soltura que me sorprendió.

Llamé a Chick. Aceptó antes de terminar de oír mi propuesta. No pude pegar ojo en toda la noche. “Charly se muere, se muere, se muere… “.

Atendí los compromisos pendientes durante la mañana y aplacé los de las tardes. Poco antes de las siete, doblé la esquina y vi que Charly entraba en el bar con el bombo que sacó de la furgoneta de reparto de su empresa, aparcada en la puerta. Cuando llegué, los tres se afanaban en instalar los amplificadores, los micrófonos, los bafles

Saludé al Melenas, abracé a Chick y luego a Charly, que me hizo sentir como un chaval cuando hizo un gesto para que esperara, me entregó un paquete envuelto con esmero: “Toma, que la memoria todavía me funciona bien”, y me pidió que lo abriera. Dentro encontré una caja de quesitos en porciones. En su honor, saqué uno de su envoltorio y, como cuando éramos jóvenes, lo devoré de un bocado, mientras Charly reía a carcajadas.

Aquellos ensayos se convirtieron en auténticos conciertos, y cada tarde aparecía gente nueva en el bar, atraída por la curiosidad de ver cómo se desenvolvían aquellos cuatro vejestorios, mientras nosotros seguíamos a lo nuestro, sin caer en la cuenta de que aquello era lo que siempre habíamos soñado.

Alguien dijo que vio, entre la multitud, y como intentando pasar desapercibidos, a la mujer del Melenas acompañada de sus dos hijos, a la mía con mi hija y su exnovio, e incluso a una pareja de hippys viejos, que llegaron a bordo de una Transporter rosa con grafitis.

La enfermedad de Charly comenzaba a hacer estragos. Una tarde no se presentó y fuimos a verle. “Lástima que no pueda agradeceros estos últimos meses, fueron sus últimas palabras.

Tras darle sepultura, el Melenas volvió a su bar, Chick a su vieja Nikkon y a sus cuadros de ventanas cerradas y yo a casa, donde mi hija me esperaba impaciente con una gran noticia: “Vuelvo con mi novio ciclista. Me marcho con él, a recorrer en bicicleta el otro medio mundo que nos dejamos pendiente”.

Para poder cuidar de mi mujer, mandé a la mierda al dueño de la inmobiliaria, cuando insistió en que volviera a trabajar por las tardes. De vez en cuando, aparezco por el bar del Melenas para hablar un rato. Nos gusta recordar lo que hicimos, mientras me tomo un whisky… o dos.



17 junio 2022

La ucraniana

Julio Sánchez Mingo


Aterrizó en Madrid en el otoño de 2010. Contaba 51 años de edad. Rubia, de ojos claros, prototipo de mujer eslava. Sólo hablaba ucraniano y ruso. La situación económica en su país era pésima y quería enviar dinero a su tierra para ayudar a su familia y poder comprar una casa. Se le habían adelantado una tía, y el marido de ésta, y un primo, el hijo de ambos, casado, con niños pequeños. Muy religiosa y practicante, empezó a acudir a la Iglesia Evangélica Ucraniana de Vallecas, que también funge de centro social, de oficina de empleo, de lugar de encuentro de inmigrantes provenientes de las antiguas repúblicas soviéticas. Allí se celebran fiestas y conmemoraciones y las mujeres se intercambian compulsivamente la ropa desechada que les dan. Todos se conocen, apoyan y ayudan. Son muy trabajadores y competentes. Ellos se emplean en oficios especializados y ellas en el servicio doméstico, al cuidado de niños y ancianos. El idioma es la gran barrera. España, un país generalmente muy racista y clasista, los acoge razonablemente bien. En invierno, sus niños y bebes usan gorritos con pompón como los nuestros. A los sirios los tenemos abandonados a su suerte en los campos de refugiados de Grecia y los negros del África Central vagabundean durante años por el Magreb a la espera de saltar la valla o embarcarse en una patera.  

En Ucrania dejó a su hija, casada y con una niña pequeña, que ahora, gracias en parte al esfuerzo y el trabajo de la abuela, estudia Medicina. Años después nacería otro nieto, un varoncito. A principios de 2011, a través de una hermana en Dios rusa, consiguió un trabajo para cuidar de una señora muy mayor, actividad a la que se ha dedicado desde entonces, pasando de unos empleadores a otros. Era obsesivo su afán por ahorrar y poder remitir a su patria dinero y grandes paquetones de ropa y comida, de tal forma que su comportamiento rayaba la tacañería. No se permitía el menor desembolso para sí misma. Le gustaba cocinar y aprendió rápidamente a preparar los platos de la comida casera española.

A finales de 2013 se le declaró un cancer de mama que alcanzó grado 3 por lo que hubo de ser operada y sometida a tratamiento de quimioterapia y radioterapia. Perdió el pelo y una vecina de su antigua patrona, en un loable gesto de empatía, le regaló la peluca de rigor. Muy simpática y zalamera, siempre tuvo facilidad para trabar amistad con la gente. La enfermedad le dejó como secuela un notable linfoedema en uno de los brazos.

Y al final, después de tanto esfuerzo, de sufrir la lejanía de la familia, del impacto de una grave enfermedad, de soportar una pandemia, la guerra lo desbarató todo. Ahora vive angustiada, se pasa el día trabajando y llorando. Su hija, miembro de los servicios de información ucranianos, y su yerno, un jefe de policía, han tenido que abandonar su hogar y paran en lugar que no pueden revelar, comunicándose clandestinamente con sus hijos, la joven estudiante y el niño de corta edad, de quienes se ha hecho cargo una hermana de nuestra protagonista que ha huido de los bombardeos de Kiev y comparte con sus sobrinos la casa familiar, en una población relativamente tranquila, por ahora, del suroeste del país. ¿Hasta cuándo durará su dolor y su congoja y Ucrania, azotada en el pasado por feroces hambrunas, granero de África, Oriente Medio y Europa, dejará de sufrir? Mientras, todo el mundo, en lugar de forzar la paz, refuerza sus arsenales militares y trafica con armas, desarrollando aún mas el gran negocio de sus industrias bélicas, al tiempo que los 100 millones de egipcios no tienen pan que echarse a la boca.

10 junio 2022

Comunidades de vecinos

Julio Sánchez Mingo

Hay vecinos que matarían por un euro. Sin embargo, se dejan sisar o timar cientos de euros por los gestores de su comunidad. La ignorancia, la incultura, la dejadez, la desidia, el qué más da, incluso en ocasiones la vanidad, la presunción, son factores que permiten esos injustificados y hasta criminales hechos. Según la ley, las funciones del presidente de una comunidad de vecinos que no deja de ser es un copropietario más son: representarla ante los tribunales de justicia, convocar la junta fijando los puntos del orden del día, presidir la correspondiente asamblea y cerrar el acta que refleje los acuerdos alcanzados. Extralimitaciones de los titulares de este cargo representativo se dan todos los días en infinitud de colectividades de toda España, con la aquiescencia, la pasividad, la cooperación o la complicidad del administrador de fincas de turno. Las tareas que dictan las normas legales para éste son:

  • Velar por el buen régimen de la casa, sus instalaciones y servicios, y hacer a estos efectos las oportunas advertencias y apercibimientos a los titulares.

  • Preparar con la debida antelación y someter a la junta el plan de gastos previsibles, proponiendo los medios necesarios para hacer frente a los mismos.

  • Atender a la conservación y entretenimiento de la casa, disponiendo las reparaciones y medidas que resulten urgentes, dando inmediata cuenta de ellas al presidente o, en su caso, a los propietarios.

  • Ejecutar los acuerdos adoptados en materia de obras y efectuar los pagos y realizar los cobros que sean procedentes.

  • Actuar, en su caso, como secretario de la junta y custodiar a disposición de los titulares la documentación de la comunidad.

  • Todas las demás atribuciones que se le confieran por la junta.

Sin embargo, se hacen obras por importe de miles de euros sin autorización del órgano soberano y ejecutivo, la junta de propietarios. Casi siempre no son urgentes ni de mantenimiento ni de ejecución obligada por la ley. Incluso no se solicita licencia municipal aunque sea preceptiva. En casi todas partes prima la política de hechos consumados. Nadie quiere meterse en camisas de once varas y en España la justicia es muy lenta y farragosa como para andar impugnando acuerdos o denunciando irregularidades. Las actas de las reuniones muchas veces no responden a lo hablado o acordado, llegando a reflejar justo lo contrario.

Un par de casos reales de nefasta gestión, verdaderamente sangrantes. Se contrata a un portero y se dan las pertinentes instrucciones al administrador para que sea dado de alta en la Seguridad Social, según indica el acta de la correspondiente sesión, mandato que es saltado a la torera. Pasan los años, el empleado fallece y su viuda demanda a la comunidad. La multa impuesta hace crujir los cimientos del edificio. Al final, el incompetente e indolente administrador tiene que hacer frente al pago de ese dineral porque el cabal acuerdo del alta del trabajador constaba en acta. El mismo administrador, sin encomendarse ni a dios ni al diablo, ordena talar un árbol porque algún propietario protesta porque le oculta las vistas. Resultado: multa del ayuntamiento que, por el momento y si nadie lo remedia, ha pagado el conjunto de los vecinos. Aunque parezca mentira, el gestor de marras, el mismo en ambos ejemplos, que también hace obras sin aprobación de la propiedad ni licencia municipal, sigue trabajando para ese sufrido y estulto vecindario.

En la mayoría de las fincas la buena conservación y el mantenimiento brillan por su ausencia, por lo que a la larga no queda más remedio que acometer obras que hubieran sido innecesarias de haberse hecho las cosas bien y a tiempo. Las obras no se supervisan adecuadamente, la calidad de su ejecución y de los materiales empleados suele brillar por su ausencia, se contrata a la baja con chapuzas, no con auténticos profesionales, y generalmente carecen de buen gusto. En el portal de casa hay tres rótulos, cada uno de ellos con diseño y estética diferente. Poco a poco los inmuebles se van deteriorando. Me fijaba el otro día en unas rampas construidas hace pocos años que se han desintegrado literalmente por utilizar un mortero de una clase infame.

Hay un grave problema de fondo. Los honorarios de los administradores de fincas son muy bajos, por lo que estos tratan de redondear sus ingresos con las comisiones por la contratación de obras, arreglos, mejoras innecesarias y suministros varios, especialmente el del combustible para las calderas de la calefacción y el ACS. Lamentablemente, en este país la corrupción no está socialmente mal vista y no se censura hasta que alcanza cotas siderales. Hay mejoras absurdas como instalar un pasamanos adicional en unas escaleras que ya tienen uno. Escaleras que no usa nadie, excepto el que suscribe que es el único chiflado que sube a pie, porque el edificio está dotado de ascensores. Para más inri, ahora tenemos dos pasamanos de diseño y estética distintos, uno a cada costado. El latrocinio puede ser todavía más oneroso para el bolsillo de los comuneros cuando presidente y administrador están conchabados.

La mayoría de las cuentas que se presentan a la aprobación de la junta suelen ser ininteligibles e incompletas, incluso para financieros avezados. Los criterios de reparto de los gastos por partes iguales, por coeficiente o por consumo en algunas ocasiones son irracionales. No responden al principio básico de que cuanto mayor es la superficie de un piso, más cabida tiene y, por tanto, puede haber más personas haciendo uso de los recursos del inmueble y sus instalaciones y servicios. Aunque hay costes que no están asociados a la superficie dada de una vivienda o local.

Los árboles son casi siempre un origen de conflictos. La ignorancia de ayuntamientos, promotores inmobiliarios, constructores, administradores, jardineros y vecinos en lo relativo a sus características, su crecimiento y al máximo porte que pueden alcanzar, provoca situaciones de enfrentamiento y frecuentemente termina con la tala de magníficos ejemplares, inocentes de la estupidez humana. En los tres vecindarios en los que estoy involucrado se han erradicado plantas injustificadamente. Las víctimas han sido píceas, un soberbio pino piñonero y varios algarrobos. Nunca se ha consultado a las correspondientes juntas de propietarios. En la última reunión a la que he asistido, una comunera de mediana edad se quejaba de que el terreno sobre el que se asienta la urbanización es de una calidad pésima cascotes, vertidos, residuos metálicos y que por este motivo las plantas no crecen. Sin embargo, un pino, en menos de treinta años, cubrió una fachada, fue condenado a muerte y ejecutado. Eso sí, sin proceso judicial con un mínimo de garantías. También hay un pinabete que me temo que tendrá el mismo trágico final. Al mismo tiempo otros asistentes censuraban al ayuntamiento por la forma en que se podan unos plátanos de sombra plantados en la amplísima calle peatonal que bordea la finca. No saben ni lo que quieren ni lo que dicen. Al final llegué a la conclusión de que les gustaría que la copa de esos árboles esté tratada como la de los ejemplares de la misma especie de La Concha de San Sebastián, algo para lo que se ha llegado demasiado tarde, pues su tamaño es considerable, han crecido mucho a pesar del suelo que criticaba la edafóloga. Los jardineros de hoy día solo saben cortar el césped y podar setos, armados de potentes y ruidosas herramientas mecánicas. Plantar y cuidar con mimo las especies vegetales no forman parte de su vocabulario.

Regular el uso de las piscinas y decidir sus horas de apertura y su calendario anual son objeto de tensos debates. En los condominios todo se prohíbe. Están plagados de cartelitos del tipo Propiedad privada, prohibido el paso, Perros no, No jugar al balón, No hacer uso de la piscina en las horas de descanso, No pisar el césped, No tirar colillas ni despedicios, Hagan uso de las papeleras, Respetad las plantas... Así hasta el infinito. Todo el mundo hace caso omiso, las papeleras están vacías y veo a un zafio conserje arrojar colillas al suelo.

Los estatutos, aunque se incorporen en la división horizontal de la finca y formen parte del título de propiedad de cada piso o local, generalmente no se respetan. ¿Para qué?

Capítulo aparte merecen las asambleas de copropietarios. De chaval me gustaba acompañar a mi padre a las juntas para ver como se peleaban los concurrentes. En una ocasión casi llegaron a las manos dos a priorirespetables señores: un registrador de la propiedad y un ingeniero de caminos. En las sesiones la gente se atropella y no se respeta el turno de palabra. Todos gritan al tiempo. Las señoras chillan con insoportable voz aguda que perfora el tímpano del más pintado y los hombres, violentos ellos, amenazan. Parece que aquel que más vocifera es el que se lleva el gato al agua. Salen a relucir odios, contenciosos y viejas disputas. Unos y otros se agrupan en clanes que mantienen posiciones irreductibles. El administrador más cínico, gracias a su piquito de oro, termina diciendo y haciendo lo que le viene en gana. Ya veremos en qué termina el enfrentamiento entre la edafóloga y un señor que el otro día, en mitad de la discusión general, le afeó su conducta de aparcar en un lugar prohibido. Ella se revolvió como una hidra afirmando que lo haría cuantas veces le apeteciera.

Para terminar, una anécdota que tiene su miga, digna de una antología del disparate y que demuestra la poca consideración y estima que se tienen unos vecinos a otros y el administrador a todos ellos. La última junta ordinaria anual mantenida tuvo lugar con los asistentes de pie en posición erecta—, en la calle, en el exterior de uno de los portales, en una zona ajardinada que da a la vía pública, eso sí, dentro del recinto de la urbanización. Continuamente era interrumpida por otras personas que pasaban por medio de aquello que parecía un encuentro de amiguetes. Hay que aclarar que en ese mismo portal hay un local con sillas donde estaba convocada y donde se ha celebrado en otras ocasiones y que en los bajos del edificio hay unos amplios soportales al aire libre, por lo que la COVID no justifica el dislate. Alguna de las señoras presentes superan los setenta años y a un niño como yo le gusta conversar y dialogar sentado, aunque el diálogo entre comuneros es muy difícil.